Quando l’Italia e l’Europa salvarono i bambini di Vienna (1919 / 1920)

Bambini Vienna treni

I mesi che seguirono la fine della Grande Guerra europea videro tra i civili, in particolare fra i bambini dell’Europa Centrale, più vittime del conflitto. Il protrarsi, dopo la firma degli armistizi, del blocco economico portò le popolazioni alla fame e creò una crisi sanitaria senza precedenti. Le donne per prime denunciarono ciò, promuovendo un’ampia mobilitazione internazionale per rimuovere l’embargo e soccorrere gli innocenti, migliaia di bambini, denutriti e ammalati, che rischiavano di non sopravvivere al rigido inverno.

Questo saggio rende onore ai cittadini europei, soprattutto donne, che, tra inverno 1919 e primavera 1920, furono protagonisti di un’epopea umanitaria di solidarietà senza confini; vicenda che ancora lascia stupiti e di cui è giusto fare memoria in prospettiva di una antropologia storica dell’Unità politica europea nata dal superamento dei confini.

Una decina di Paesi europei si mobilitarono organizzando treni della fratellanza che portarono al sicuro migliaia di piccoli viennesi, ospiti di comunità locali e famiglie anche di ex-nemici. Fu l’azione italiana che, rappresentando l’esempio più emblematico di riconciliazione, maggiormente impressionò la stampa mondiale. Il New York Times, ad esempio, riportava le seguenti dichiarazioni del sindaco di Vienna Jakob Reumann appena giunto a Milano nel febbraio 1920 per visitare i bambini ospiti del Comune. Questa nobile iniziativa, rivolta verso un ex nemico, è il modo migliore per neutralizzare i vecchi sentimenti di rancore tra i due popoli.

Tra la fine del 1918 e la primavera 1919, mentre l’opinione pubblica iniziava a interrogarsi sugli effetti devastanti del blocco, organizzazioni femminili inglesi lanciarono una campagna di controinformazione. Malgrado la resistenza degli apparati di Stato, si organizzò l’azione umanitaria di emergenza, dando vita al Save the Children Fund e ottenendo pure la fine del blocco. Anche il Papa Benedetto XV sostenne l’ONG e il 24 novembre 1919 diffuse l’enciclica Paterno iam diu, invitando i cattolici a raccogliere aiuti.

Già sul finire del 1919 erano arrivate da parte austriaca pressanti richieste di soccorso per salvare un Paese considerato prossimo al disastro: a Parigi, il 16 dicembre, davanti ai vincitori, il cancelliere Karl Renner lanciava un drammatico appello, con una lunga e documentata relazione sulle pietosissime condizioni in cui versa l’Austria e in particolare Vienna. Le disponibilità attuali dell’Austria le consentono di vivere sino a gennaio, riferiva il quotidiano torinese La Stampa. Da parte sua il Comune di Vienna promuoveva l’affido temporaneo all’estero di minori, che alla fine del programma durato oltre un biennio, raggiunse le 200.000 unità.

In Italia gli amministratori socialisti di tre grandi città del Nord (Milano, Bologna e Reggio Emilia) nel dicembre 1919 chiesero al Governo di fornire treni per recarsi in Austria, dove la mancanza di carbone bloccava la circolazione ferroviaria. All’andata avrebbero caricato generi alimentari e di soccorso e al rientro avrebbero accompagnato a svernare in Italia un primo numero di bambini. Ottenuti i treni, sindaci, medici, educatrici e funzionari il giorno di Natale partirono per Vienna.

L’abbraccio del socialismo italiano ai bimbi viennesi è uno sprazzo di luce confortatrice, ammonitrice, commentò La Difesa delle Lavoratrici, rivista delle donne socialiste. Corra presto il convoglio che ci porta i nostri piccoli fratelli; altri convogli lo seguano. Si salvino i bambini, quanti più possiamo salvare. Rinasce in mezzo a noi il figlio di Nazareth. Poi proseguiva: Pietà socialistica ci chiama a Vienna, ma anche la comprensione chiara di una necessità politica. Atto di sapienza internazionale, e diciamo anche italiana […]. L’Italia che si stringe ai popoli del centro e dell’Oriente può riscattarsi economicamente dal servaggio anglo-sassone.

La nostra ricerca ha ricostruito lo sviluppo della missione italiana grazie agli svariati articoli comparsi sui giornali di Italia, Svizzera, Francia, USA, Nuova Zelanda. Da questi si desume come il progetto non fosse solo dimostrativo o assistenziale, ma intendeva raggiungere ben diecimila bambini di età compresa tra i 7 e i 13 anni, ognuno dei quali avrebbe soggiornato in Italia per tre/quattro mesi. I ragazzi non avrebbero interrotto la frequenza scolastica, potendo seguire corsi impostati sul modello austriaco tenuti da educatrici austriache. Ciò, evidenziava il sindaco di Milano Emilio Caldara, avrebbe garantito il rispetto della diversità culturale e linguistica, senza nessun recondito intento di italianizzazione. Durante il soggiorno a Vienna la delegazione si rese conto della gravità della situazione visitando gli ospedali e le mense per i bambini, organizzate con ampio dispiegamento di mezzi da parte americana. Visitò il Bosco Viennese, che veniva quotidianamente spogliato dei suoi alberi da folle di donne e bambini (“migliaia” secondo il quotidiano francese l’Humanitè) che non avevano altro modo per riscaldarsi.

Dunque l’Italia, dopo i Paesi neutrali, è il primo Stato tra quelli già belligeranti che mette i nostri bambini sotto la sua protezione. E questo è un segno che ci rallegra in quanto dimostra che, dopo una guerra spietata, ora la solidarietà umana riconquista finalmente diritto di cittadinanza” affermava un comunicato della città di Vienna pubblicato dalla Gazette de Lausanne sul finire del 1919. Erano appena ripartiti dalla viennese Sudbahnnhof per Italia due convogli con circa ottocento bambini, uno diretto a Milano (e poi ai centri climatici della Riviera) e l’altro per l’Emilia/Romagna.

L’azione italiana fu stimolo per altre realtà europee: in Svizzera il comitato promotore ginevrino così considerava sul Journal de Genève all’inizio del 1920: Ginevra resterà indietro quando le città italiane da parte loro hanno spontaneamente offerto 10.000 posti letto per i figli dei loro più implacabili nemici di ieri?

L’azione solidale fu retroterra per la ripresa di relazioni bilaterali tra Italia e Austria: il cancelliere austriaco Renner si recò in visita ufficiale a Roma dove, il 12 aprile 1920, firmò un accordo tra i due Paesi. Al suo rientro, parlando il 21 aprile all’assemblea nazionale, dichiarava: Abbiamo avuto l’impressione che in Italia si stesse verificando un cambiamento, che la pace si fosse definitivamente conclusa non solo tra i governi ma anche tra i popoli, non unicamente sottoscritta sulla carta dei trattati, ma impressa nel cuore dei popoli.

Pochi giorni dopo, il vice sindaco di Vienna Max Winter faceva il punto del programma di affidi, fornendo al Consiglio Comunale le seguenti statistiche: 79.793 il numero dei giovanissimi viennesi coinvolti nel progetto tra il 24 settembre 1919 e la fine di aprile del 1920. Oltre all’Italia (che sino a quel momento aveva accolto 6.393 bambini) il programma aveva riguardato sette altri Paesi europei: Svizzera (con 26.973 bambini ospitati), Olanda (19.942), Germania (12.621), Danimarca (5.490), Svezia (5.190), Norvegia (2.732), Cecoslovacchia (382) e pure il land Alta Austria aveva dato collaborazione ospitandone 60.

Ma cosa lasciò l’esperienza? Nell’immediato produsse in concreto una nuova modalità di fraternità europea post-bellica, come testimonia il tenore delle riflessioni scambiate tra le partecipanti al congresso della Women International League for Peace and Freedom, che si tenne a Vienna dal 10 al 17 luglio 1921. Nel suo discorso di benvenuto, la pacifista austriaca Yella Hertzka, esprimendo commossa gratitudine alle delegate giunte da Paesi già in guerra con il suo, affermava che le donne europee, grazie al loro adoperarsi in aiuto dei bambini viennesi, potevano ora considerarsi madri anche dei figli dei loro ex-nemici! Frase che attesta come nell’esperienza dei treni della fratellanza si possa cogliere la realizzazione spontanea di quell’atteggiamento di apertura all’altro motivato da sentimento di genitura che Aldo Capitini mise fra i Principi della nonviolenza.

Inoltre, rileggendo lo sviluppo della vita di una bambina di Vienna, come raccontato dallo psicanalista Charles Bettelheim, si rilevano pure significative ricadute prodotte da questa esperienza sul lungo periodo. Miep Giese, la ragazza olandese che rifornì di viveri la famiglia di Anna Frank in clandestinità, era una dei bambini austriaci dei treni della fratellanza. Arrivata presso una famiglia operaia in affidamento temporaneo, vi restò per sempre. Miep, una volta sperimentata e profondamente interiorizzata tale esperienza di solidarietà, fu pronta a farla rivivere nei confronti di altri nel momento in cui se ne presentò l’occasione, cioè durante l’occupazione dell’Olanda nella seconda guerra mondiale, quando si trattò di dare soccorso ai perseguitati dai nazisti.

A noi compete fare lo stesso oggi, al fine di dare continuità tra generazioni alla catena di trasmissione della cultura di solidarietà, perdono e riconciliazione allora testimoniata nei diversi Paesi d’Europa dai nostri avi pacifisti. L’intento è che noi, divenuti eredi consapevoli, si sia capaci di accogliere, in uno scambio fecondo per tutti, chi, sfuggito dalla terza guerra mondiale per capitoli, cerca rifugio in altre terre dove veder rispettata la propria umanità.

Concludo con una proposta concreta. La faccio a pochi giorni da Natale, per rompere la cappa culturale che oggi fa quasi solo ragionare di guerra, nel ricordo dei “treni della fratellanza” del Natale 1919 che partirono dalla Stazione Centrale di Milano per correre al salvataggio dei bambini viennesi. Mii rivolgo a sindacati, enti locali (Milano e Regione Lombardia in testa), realtà religiose, ONG, affinché insieme si impegnino in una ricerca-azione finalizzata a costruire nei diversi territori italiani e d’Europa una memoria attiva di questa incredibile epopea pacifista del primo dopoguerra. Ciò come concreto contributo culturale affinché la nostra regione di Lombardia, l’Italia e l’Europa, memori di positive esperienze di superamento delle barriere di confine, continuino a sentirsi terra di ospitalità e riconciliazione. Le prime iniziative di base di memoria attiva (mostre, laboratori, teatro di strada) realizzate sinora nell’Italia del Nord in città della Lombardia (Monza) e del Piemonte (Novara) sono riuscite ad attirare una buona attenzione di normali cittadini, stampa locale e scuole, dimostrando che seguendo questo percorso culturale è possibile contrastare sciovinismo e populismo che rifiutano i rifugiati di oggi e rianimare il nostro cuore fraterno.

FONTE: Roberto Albanese, I treni della solidarietà che salvarono I bambini di Vienna, in “Azione Noviolenta” n. 611, Settembre / Ottobre 2015

Roberto Albanese

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