Animazione in comunità

Il teatro come metodo pedagogico di ricupero

Indice:

1. Premessa
2. I principi dell’apprendimento
3. Diffidenze e difficolta’
4. Il copione “Arese”
5. Dimensioni psicopedagogiche della ricerca espressiva
6. Tipologia del gruppo
7. Un confronto con la Fraternità Capitanio di Monza
8. Animatore e / o educatore?
9. Note

1. Premessa

Il teatro è generalmente valutato come un linguaggio interdisciplinare, che fonde insieme diverse tecniche espressive, realizzando il cosidetto ternario drammaturgico: testo, coro degli attori che si pongono in comunione diretta con il coro del pubblico.

Inoltre si afferma la valenza pedagogica del teatro nell’ambito della scuola, come forza di sostegno, non solo, ma fattore estremamente positivo per un adeguato esplicarsi dell’espressione-comunicazione sul piano personale e di gruppo:

si riscopre una dimensione provocante dello spettacolo creato per la scuola, come spinta a comprendere l’originalità del linguaggio scenico, e invito a lasciarsi prendere da una formula rappresentativa totalizzante;

si rivela la forza produttiva del teatro inserito nella programmazione scolastica, come forza coagulante di diverse discipline, per uno scopo educativo comune;

lo svelarsi della validità di un teatro e di uno spettacolo realizzato nella scuola nella nuova efficace verifica di temi e problemi già indagati;

l’approfondimento espressivo di una problematica, rivista come messaggio che può essere giustamente rivolto al sociale.

Infine il teatro compreso in un processo di ricupero per giovani in difficoltà, e in particolare per ex tossicodipendenti. L’esperienza che viene offerta, e che trovo difficilmente documentata altrove, può garantirsi come esemplare e significativa, una sollecitazione a una verifica con altre situazioni di ricupero.

Conviene aggiungere subito che il teatro, e uno spettacolo ridefinito con il metodo dell’animazione teatrale, tende a convergere con la proposta dello psicodramma, se questo è inteso essenzialmente come uno strumento terapeutico. Gli studiosi sostengono che la psicoterapia di gruppo e in gruppo permette di risolvere certi problemi che altrimenti resterebbero insoluti: di attaccare per mezzo dello psicodramma le psicosi (in ospedale) e le nevrosi (in ospedale e fuori) e di prendere in cura un gruppo relativamente numeroso di pazienti che altrimenti sfuggirebbero a un qualunque trattamento psicologico. Nello psicodramma si tratta di vivere in gruppo una situazione passata, presente e anche futura, non raccontandola in un colloquio individuale ma in un’azione improvvisata, in una specie di “commedia dell’arte” applicata a una situazione vissuta: l’eroe (o il protagonista) esprime i suoi veri sentimenti e mette in scena la situazione con l’aiuto di tutti i personaggi presenti necessari all’azione, che gli daranno la battuta. Questi “Io-ausiliari” reagiscono spontaneamente, basandosi non soltanto su su ciò che il protagonista (protagonista) ha detto della situazione e del personaggio che essi incarnano, ma soprattutto sulle reazioni e sui sentimenti che suscita in loro il protagonista. In questo senso lo psicodramma è un incontro privilegiato che ammette solo dei partecipanti attivi. Di conseguenza non si può andare a vedere uno psicodramma. Non si può che farlo, che essere nello psicodramma.

Lo scopo terapeutico accomuna lo spettacolo teatrale e lo psicodramma, e nello stesso tempo lo psicodramma si definisce in una sua specifica modalità. Lo spettacolo teatrale segue le leggi dell’azione scenica e diventa fattore terapeutico nella tensione del gruppo di superare schemi espressivi logorati, per giungere a una forma liberatoria nella comunicazione di un messaggio nuovo, da partecipare vivacemente a un pubblico. E’ quanto ho vissuto in prima persona con un gruppo di giovani, un saggio implicitamente e profondamente terapeutico, e che descrivo di seguito.

L’occasione di sperimentare personalmente il linguaggio teatrale come metodo terapeutico di ricupero mi è stata data da un soggiorno di un paio di mesi presso una comunità Emmanuel di Lecce (1), formata da giovani ex tossicodipendenti, trascorsa nel ruolo di giornalista e di animatore.

Mi ero incontrato con un gruppo di una quindicina di giovani che come stimolo di una “ricerca” avevano letto Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach (2), una ricerca che i giovani realizzavano ogni giorno per un paio d’ore nel secondo pomeriggio. La scelta del volume, credo, era stata fatta in quanto il bestseller di R.Bach esaltava un’affermazione di libertà, il rischio chiaramente affrontato di un’autonomia di fronte a un ambiente di “saggi”, ostile a qualsiasi novità, l’invenzione di un diverso ostinato e cosciente stile di vita, di un modo alternativo di essere. Era una tematica coerente con la proposta di terapia vissuta dal gruppo.

Non ho esitato a proporre al gruppo, d’accordo con la direzione e i responsabili della comunità, di rivivere in forma teatrale la problematica che avevano presente nella lettura delle avventure del gabbiano Jonathan: E Jonathan si mise a volare, una revisione drammatizzata del testo compiuta da educatori e ragazzi di Arese (3).

2.I principi dell’apprendimento

Dopo la lettura di un brano delle vicende del gabbiano Jonathan, i giovani si fermavano a discutere assieme quanto gli aveva colpiti delle pagine di R.Bach, e quindi stendevano proprie osservazioni e rilievi su un quaderno. Si fermavano a un primo elementare livello di apprendimento, dimenticando altre possibilità di verifica e di approfondimento.

Prima di essere stimolato da una passione per il teatro e l’animazione teatrale, il sostegno decisivo della mia proposta si basava su una premessa fondata sui livelli di apprendimento, livelli provati scientificamente e che richiamo schematicamente.

Un primo livello di verifica e di valutazione di temi e problemi appresi da una ricerca o in genere da una lettura consiste nella loro riespressione sul piano verbale o scritto. Un secondo piano di apprendimento si attua usando il linguaggio iconico o delle immagini, secondo la potenzialità dei diversi media (diatape, cinema, TV). Un terzo livello si raggiunge con il linguaggio teatrale, che coinvolge tutta la personalità, e che integra razionalità e emotività, apporto personale e dinamica del gruppo, parola e gesto, una tipica modalità linguistica che si compone con altri fattori e altre tecniche espressive.

In altre parole, il principio dei livelli di apprendimento si gradua sulla diversa sempre più completa forza espressiva e comunicativa: essere = esprimere e comunicare.

Per i giovani in fase di recupero non ci si poteva fermare a uno stadio di inglobamento di informazione e di dati del resto decisivi. Per loro, meglio che in altri casi, urgeva l’assimilazione di un “atteggiamento”, rivissuto esistenzialmente, e quindi per loro i principi dei livelli di apprendimento diventavano qualcosa di urgente e di non rimandabile.

3.Diffidenze e difficoltà

Una situazione di diffidenza sorgeva da parte dei giovani, per un mancato allenamento all’espressione teatrale, sperimentata occasionalmente in pochi saltuari saggi. Inoltre i giovani manifestavano una tendenza all’isolamento, per aver assunto una maschera, anche per un istinto di difesa di fronte agli altri. Pesava per un facile e disinvolto relazionarsi la mancanza di spazi e di momenti di confronto vicendevole: nell’orario della giornata esistevano scarsi frammenti in cui confrontarsi con gli altri. E questo benché uno dei traguardi del metodo pedagogico fosse appunto definito nella necessità e positività di “esprimere tutto di sé”. Un traguardo che poteva essere anche frainteso, e talvolta ricadeva in un intervento apparentemente liberatorio, e che diventava una pesante mancanza di rispetto degli altri.

Diffidenza da parte dell’educatore (benché avessi il consenso della direzione), che non si faceva presente durante la fase delle prove, e che in seguito non si preoccuperà di partecipare alla rappresentazione finale. Una diffidenza che lo allontanava dal gruppo, per cui, terminata la ricerca espressivo-comunicativa, si affrettava a ricuperare il tempo “perduto” nell’allestimento dello spettacolo, tanto da privilegiare ancora e più pesantemente di prima il lavoro di ricerca (letta – discussa – scritta) a scapito di alcune repliche del risultato finale, che pur erano già state previste.

Una diffidenza da parte mia di fronte all’uso e abuso di di un codice linguistico congelato in una ventina di termini classificatori di situazioni positive e negative (egoista, aperto, chiuso, ambiguo, ecc.), “cassette espressive”, come le definiva uno del gruppo, un bloccaggio che bisognava scalfire e superare.

Una sicurezza, nonostante questa e altre difficoltà, di giungere a un risultato gratificante, sicuro com’ero della “bontà” del metodo dell’animazione e del linguaggio teatrale, richiesto in maniera pressante da parte del gruppo in un clima di ricupero.

4.Il copione “Arese”

Il nucleo dell’elaborazione degli educatori e ragazzi di Arese non forma un teatro d’azione, ma punta sull’aspirazione di volo e di libertà del gabbiano Jonathan, come esemplare dei giovani. Il personaggio Jonathan può anche restare in disparte, mentre prevale una serie di antitesi del gabbiano – giovani con varie forme di oppressione. A parte un coro, vibratore di risonanze meditate, le diverse antitesi si presentano così, spesso estremamente attualizzate:

contrapposizione evidenziata tra un coro di giovani, con la loro ansia di libertà e un coro di “vecchi”, una mentalità ostile, tradizionalista, benpensante, borghese, che sentenzia il suo disappunto e sostiene il suo angusto punto di vista: “per la maggior parte dei gabbiani il volare non conta / Conta mangiare!”. E le voci dei giovani, schierati dalla parte di Jonathan, ribattono: “Ma Jonathan non la pensava così / non era un gabbiano come gli altri / a lui piaceva librarsi in volo / in alto, su nei cieli in una entusiasmante avventura di azzurro, di aria pura, di libertà”.

antitesi fra Jonathan – giovani e il gretto ambiente familiare. Al padre che lo rimprovera aspramente: “Perché non devi essere un gabbiano come gli altri? Vedi ti sei ridotto a pelle e ossa”, Jonathan ribatte: “Non mi importa se sono pelle e ossa, papà. A me preme sapere, imparare, vivere, fare esperienza!”. E il padre incalza: “Se proprio vuoi studiare, studia la pappatoia e il modo di procurarsela. Sta facenda del volo è bella e buona, ma mica puoi sfamarci con la planata, dico bene? Non scordarti, figliolo, che si vola per mangiare”.

antitesi fra Jonathan, la sua iniziativa singolare e libera e la Legge dello Stormo, il suo ceto sociale, il suo clan di appartenenza. In una assemblea generale il Gabbiano Capo lancia il suo anatema: “Il gabbiano Jonathan viene messo alla gogna e svergognato al cospetto di tutti i suoi simili”; Jonathan inutilmente tenta di ribattere, ma il suo sforzo viene vanificato dall’incalzare del Capo che sentenzia: “Via dallo stormo! Mandatelo sulle Scogliere Remote affinché mediti e impari che l’incosciente temerarietà non può dare alcun frutto. Tutto ci è ignoto e tutto della vita è imperscrutabile, tranne che siamo al mondo per mangiare e campare il più a lungo possibile”. Jonathan quasi disperatamente, nella condizione di un escluso e di un reietto, cerca di chiarire: “Incoscienza? Condotta irresponsabile? Fratelli miei! Ma chi ha più coscienza di un gabbiano che cerca di dare un significato, uno scopo più alto alla sua esistenza? Per mille anni ci siamo arrabattati per un tozzo di pane e sardella, ma ora abbiamo una ragione, una vera ragione di vita … imparare, scoprire cose nuove, sentirsi solidali, essere liberi! Datemi solo il tempo di spiegarvi …”: Il coro dei giovani commenta favorevolmente la decisione di Jonathan di restare solo, di difendere la propria liberta: “E Jonathan si mise a volare / Fantasia sulla realtà di un mondo che va sempre, comunque, verso un futuro migliore”.

l’antitesi della presa di posizione di libertà, viene specificata da una situazione di livellamento, di assurda passività, con uno spezzone sulla vita militare, sulla vita nella scuola;

il piatto livellamento sociale è descritto dalla presenza di una “coppia consumistica” che si esprime in un linguaggio da teatro dell’assurdo, e ancora da una “coppia borghese”, convenzionale e svanita, a cui si contrappone una “coppia giovane” che si dedica a lavorare in un ricovero di vecchi, con il logico rifiuto da parte dei genitori, e infine una “coppia impegnata” che sostiene la forza della nonviolenza;

l’esperienza brutale dei ragazzi di Arese trapela nel ricordo di alcune situazioni di violenza sofferte dai loro genitori.

Il messaggio conclusivo è apertamente lanciato verso il pubblico dal coro dei giovani: “Lo spettacolo è terminato. A voi lasciare libero il vero gabbiano Jonathan che è nascosto nel vostro cuore”.

Nel tessuto corale, nell’intrecciarsi di antitesi veristiche e talvolta crudeli, anche se espresse con un timbro beffardo, venivano messe in risalto le tensioni del cammino di ricupero dei giovani: autovalutazione, distacco da un gioco al massacro, apertura e speranza di un futuro trasformato, liberazione da comportamenti autodistruttivi, ricerca di una “schiarita” espressiva e comunicativa, in una presa di posizione cosciente, critica, libera.

5.Dimensioni psicopedagogiche della ricerca espressiva

a livello personale

Si trattava da parte dei giovani di Lecce di scoprire soprattutto l’espressività della voce, nella padronanza dei toni, dei volumi e specialmente dei timbri della propria voce, come sforzo personale di svelare emozioni e sentimenti, forse anche ratrappiti e nascosti nel profondo della personalità. Si richiedeva di compiere una autoanalisi per far emergere la totalità del proprio personale essere. L’affermazione che sembra gratuita e esagerata è sostenuta da una professionista del teatro, Iben Nagel Rasmussen: “Scoprire la propria voce significa scoprire il proprio mondo interiore, la propria anima (…) Capisci cosa significhi trovare la propria voce? Non avere paura della propria forza, trovare dentro di sé qualcosa che non è fragile, che non è gentile, ma che neppure è rancore, amarezza. E’ semplicemente la tua voce, che è fatta per scaldare, ma anche per lottare. Importante non è soltanto vincere la lotta. E’ importante non uscirne fuori dura, amara, disseccata (…) Non è una lotta per distruggere, per ferire ma una lotta per aprire, come un filo d’erba che guida tutte le forze in una sola direzione, per rompere la resistenza della terra, uscire all’aria” (4).

Una lotta per aprirsi dal profondo della propria irrepetibile personalità, sperimentata dai giovani della comunità come un cammino difficile, faticoso. Spontaneamente essi cercavano di dover entrare in una parte, predefinita, preconfezionata, e quindi lontana, mentre il problema era quello di scoprire e scoprirsi una parte, un personaggio, secondo le proprie modalità (e modulazioni) esistenziali.

Significativo il fatto che, dopo diversi tentativi che si insabbiavano nel monocorde e nello standardizzato, un giovane del gruppo mi aveva chiesto di registrare una mia interpretazione per avere un riferimento esemplare. Mi sono senza incertezza rifiutato. Una mia esibizione diventava immediatamente uno schema staccato invariato e che poteva anche considerarsi invariabile. Rispondevo quindi che ciascuno di loro, doveva far scaturire una personale e originale reazione sentimentale-emotiva, critica e cosciente. Dovevano inventare e reinventare se stessi, per fiorire come un “filo d’erba”, oltre le costrizioni (auto) imposte, per un coerente inserimento nel tessuto collettivo dell’ipotesi creativa comune. In tale lavoro dovevo sembrare ai giovani parecchio esigente, intollerabile di fronte a soluzioni che sembravano anche giuste, d’altra parte ancora lontane da una vibrazione autentica e profondamente sincera.

Si imponeva così di giungere a una autocoscienza personale nuova: “io mi autoriconosco perché mi mi autoesprimo secondo il mio personale temperamento, oltre una maschera scelta a mia difesa, o imposta dagli altri; oltre a un linguaggio fossilizzato, oltre i legami convenzionali nel rapportarsi congelato con gli altri … io mi esprimo in maniera nuova e diversa da tutti gli altri e nello stesso tempo in accordo con tutto il gruppo”.

a livello corale

Giova rivolgersi a un intervento del prof.Mario Apollonio, compreso in un suo saggio sul coro, un’indagine ancora attuale e vivace: “La vita del gruppo non è il risultato di un aggregarsi inerte, né la somma statistica di risultati singoli; ma nella sua cerchia l’individuo si esprime solo riferendosi all’unità attiva cui appartiene in atto, e si sente di appartenere, e che esprimendosi e comunicando si promuove: onde deriva l’unità intrinseca di espressione-comunicazione, troppo spesso risolte ad arbitrio isolando ora l’uno ora l’altro dei due termini. E così la ricchezza che l’individuo ha così acquistato, come deriva dal gruppo così al gruppo rifluisce. La stessa vita di rapporto che più d’uno stabilisce, procedendo tanto avanti da dimenticare il gruppo cui appartiene, in realtà, prima di ogni altro procedere, si riferisce a quell’unità e ai vari modi del suo coesistere, riferibile sempre e primariamente al fatto d’essere una” (5).

In un mio saggio sulla drammatizzazione così mi adeguavo alle posizioni del prof.M.Apollonio: “Il rischio dell’immagine [come dato e come tema culturale] è quello di allontanarsi in un clima di aerea, sterile compiacenza illuministica; il pericolo insito nell’autonomia del singolo è di fermarsi in un limbo di presunta, solitaria autonomia solipsisistica.

Sia l’immagine collettiva che l’indipendenza del singolo possono ugualmente rimanere vuoti prodotti, gesti vani, distanti dalla conferma del presente e delle sue reali possibilità creative. L’unità dialetticamente produttiva fra esigenze della persona e le esigenze dei tanti, viene ritrovata quando la vitalità del gruppo rispetta nello stesso tempo la forza dell’immagine creativa della persona e il suo inserimento tra i molti; quando non viene mitizzato il collettivismo o la ricerca del singolo.

Il gruppo tende ad essere una totalità, un insieme creativo e fattivo, quando la sua autocoscienza viene compiuta attraverso le diverse e tante successive integrazioni date dall’apporto di tutti, con la loro specifica, individuale irripetibile originalità. Il gruppo acquista nuova consapevolezza confrontandosi con un’immagine che è insieme documento e risposta, reazione dei tanti, impegnati nella medesima avventura.

Nella vita del gruppo, la partecipazione dei molti sostiene la forza del gruppo stesso e intensifica la vita del singolo. Il singolo scopre se stesso stesso nel gesto della partecipazione. Non viene annullato, ma il suo inserimento diventa esplicito, accordato e quindi maggiormente qualificato.”(6)

Mi sembrava opportuno anticipare queste osservazioni tecnico-operative per valutare meglio il significato di quanto dicevo sopra a proposito del “livello personale” che si verificava in un copione a struttura corale. Richiamo ancora i diversi passaggi corali, per stimare meglio l’impegno sul quale si erano orientati i giovani della comunità, sempre più avvertiti nel corso delle prove alla prospettiva che era davanti a loro.

Le molteplici scansioni corali erano costituite essenzialmente di questi nuclei: lavoro di sintonia comune nel coro di base, che agiva a vari piani di commento, di riflessione, di appoggio, di disincanto, secondo l’evolversi dell’azione; lavoro di ritmi rapidi di compresenza nei due contrapposti gruppi di giovani e di vecchi, una serie di proposta-risposta incalzante; andamento dialogico fra le coppie “consumistica” e “borghese”, e l’alternativa della “coppia giovane” e la “coppia impegnata”; scontro a due nella scena di vita militare e in quella della scuola, dove era possibile un gioco mimico che non risultava degli altri interventi corali; vivacità pressante nelle testimonianze di violenza nella famiglia, un vigore vibrante nel precipitare delle rispettive voci.

Le premesse del significato del gruppo e dell’individuo nel gruppo si concretizzavano nell’adesione sempre più autentica dei giovani nel “crearsi” un proprio personaggio in funzione di un lavoro collettivo. Stima quindi e rispetto della “presenza” dell’altro con cui si agiva in sintonia; una sintonia imposta dalle esigenze espressive comuni, accettate come forma logica e adeguata dell’impegno intrapreso. Intuizione attiva del significato del gruppo all’interno del quale il singolo si trovava, in un atteggiamento di responsabilità di fronte a se stessi e al gruppo-coro. Di conseguenza valorizzazione delle abilità personali riconosciute nel rapporto sincero, spontaneo aperto con gli altri: un confronto di autostima nel riflesso vitale con il gruppo. Una presa di posizione decisa maturava nel singolo dinanzi a se stesso e di fronte agli altri, per una unitaria ricerca di partecipazione rivolta al “coro” degli spettatori; intensificarsi di tale decisione come nerbo costitutivo dell’intero gruppo. Si consolidava una autocoscienza, del singolo e del gruppo, nei confronti delle tematiche del gabbiano Jonathan, che richiedeva di essere personalizzate dall’individuo nel vissuto dell’intero gruppo. E il gruppo non soffocava la vitalità originale del singolo, ma legittimava e potenziava la sua creatività.

In questo modo le problematiche del copione non erano osservate in un alone astratto, ma erano rivissute a un livello di coinvolgimento personale e di gruppo, in una forma “alta” di carattere esperienziale. La forza di questo coinvolgimento garantiva la validità delle tematiche per un possesso sicuro, preciso, nuovo.

L’incertezza e il timore comprensibile di comunicare un messaggio agli spettatori veniva superata dal singolo in una sfida con se stesso, nella capacità di “esporsi” interamente all’interno del gruppo e quindi dinanzi agli spettatori. La necessità di fare un confronto in un certo senso definitivo con un pubblico poteva ridursi a un dialogo a due voci, più o meno sincero; nell’azione drammatizzata per affrontare una serie di problematiche molto pertinenti, il confronto nello spettacolo per un pubblico, si verificava come autoaffermazione di sé stimata dal gruppo, umile sincera coscienza di potersi “perdere” nella comunicazione, un gratificarsi profondamente per sé e per gli altri. E il lavoro corale, come funzione ottimale del gruppo, era sottolineato da diversi giovani nel corso delle prove e dopo lo spettacolo finale.

A integrazione della ricerca corale era stata sfruttata una colonna sonora ripresa dai Concerti Brandeburghesi di Bach; la proiezione di alcune diapositive ricavate da un diatape sul medesimo soggetto concentrava l’attenzione nei momenti di passaggio da una fase all’altra dell’azione; essenziali costumi base erano stati scelti per i gruppi corali: un mantello marrone per i Vecchi, una tunica verde per i Giovani, una azzurra per il coro di commento narrativo, mentre per il personaggio Jonathan si era scelta una tuta da aviatore scoperta nel mercato locale.

6.Tipologia del gruppo

Nel suo insieme i diversi componenti il gruppo si differenziavano oltre che per il loro temperamento, per una distinta capacità assunta di personalizzare la terapia della comunità, per un preciso distinguersi l’uno dall’altro nel livello di maturazione personale. Il lavoro di spettacolazione, la serie di prove durate due mesi, con incontri intensificati nell’imminenza del risultato conclusivo, erano, come si osservava, occasione, per tanti versi unica, di fusione collettiva (e corale), e di esplicazione per potenzialità espressive, tanto spesso nascoste e smarrite.

Le osservazioni che si possono avanzare in genere per un apporto psicopedagogico attuato con la ricerca espressivo-comunicativa, diventavano più valide per il gruppo in cammino terapeutico. Le generiche e esatte valutazioni adatte per qualsiasi gruppo si determinavano come maggiormente pertinenti e efficaci per i giovani con cui lavoravo.

Così I.C. abituato ad una forma comunicativa piatta e monocorde, superava quasi divertito il suo “bloccaggio” normale in un intervento caloroso nella parte di un genitore inviperito contro i figli, e nella parte di un soldato che marciava imperterrito agli ordini del suo caporale. A.D.C. che dimostrava un forte senso umano nei rapporti, in una modalità raffrenata, si “riscaldava” e si scioglieva coerentemente in una testimonianza aperta e vibrante. A.B., un temperamento in un certo inflessibile e anche duro, si adeguava alla temperie corale con una modulazione di timbri insolita. O.C. denominato dagli altri come il “professore”, per il suo buon grado di cultura, si rendeva disponibile per la fusione corale, e si prestava spontaneamente a indicare ai singoli una flessione emotivo-comunicativa. M.C., apparentemente freddo nel suo relazionarsi con il gruppo, con una sua intransigenza nel sentenziare le proprie prese di posizione, si decantava e si ammorbidiva nel suo impegno di far vivere un personaggio corale e non, ecc., ecc.

7.Un confronto con la Fraternità Capitanio di Monza

Mi è stata offerta l’opportunità di un incontro-intervista con la responsabile della “comunità terapeutica femminile di Monza”. Sono stato informato che la “Fraternità” esiste dal 1977, è gestita dalle Suore di carità delle SS.B. Capitanio e V.Gerosa, e attualmente accoglie una quindicina di ragazze e giovani ex tossicodipendenti.

Ho avanzato subito la domanda che più mi premeva: esistono delle attività di animazione teatrale all’interno del progetto di ricupero? E la risposta è stata immediatamente positiva: esistono due momenti di animazione, uno come dinamica del comportamento non verbale, guidata da un’esperta pedagogista, e impegna le ragazze per due pomeriggi la settimana, e un altro momento realizzato come laboratorio teatrale, condotto da un giovane appassionato di musica e teatro, che si inserisce nel lavoro abituale una volta la settimana, a cui partecipa ancora tutto il gruppo.

La responsabile-educatrice delucidava ulteriormente: “L’attività del laboratorio era stata abbandonata per alcuni anni, e poi ripresa nel 1996. Avevamo visto come attraverso la dinamica del comportamento non verbale, l’attenzione era molto rivolta a sé, alle proprie emozioni, sentimenti, l’espressione spontanea, le esperienze passate – tutte cose importantissime e significative – ci sembrava però anche importante usare in qualche modo un metodo affine, per aiutare le ragazze a fare un altro passo, entrare in una parte, provare a mettersi dal punto di vista dell’altro, entrare in quelli che potevano essere i sentimenti, i punti di vista di una persona particolare; abbiamo così introdotto il laboratorio, che sta cercando una propria strada, sta cercando di ingranare”.

Un primo spettacolo era stato il risultato del laboratorio, Gesù Cristo e la strada, della durata di meno di mezz’ora, più che altro un insieme di poesie, e una loro trasposizione in gesti, un tentativo che vedeva le ragazze molto impegnate; e un altro spettacolo era in fase di allestimento, Al centro del presente, nello stile del recital e del musical, più vivace del precedente, un percorso di ricerca, e anche una ricerca di senso, nella tensione di dare un messaggio agli altri.

La responsabile insisteva nel chiarire il significato del lavoro teso a uno spettacolo: “Il lavoro di animazione va collocato dentro un tentativo di riprendere contatto con la propria realtà, con la propria dimensione corporea, con le proprie esperienze passate rievocate dalla musica, riespresse attraverso la gestualità. Il passaggio successivo è quello di aiutare la persona a capire che quelle dinamiche, quei sentimenti e le esperienze del passato non sono chiuse in un cassetto, ma in qualche modo vanno tenute presenti perché c’è un collegamento con la realtà quotidiana, con la realtà presente; quindi il tentativo mi sembra proprio questo, un elaborare il passato ma in vista di una maggiore attenzione al presente, al qui e ora: quello che è passato non ci determina in modo assoluto, ma invece ci determina nella misura in cui ne sei consapevole e lo gestisci con libertà e responsabilità”.

Gli spunti per il lavoro di animazione sono logicamente quelli della realtà della persona, la sua storia, quello che sta facendo, e quanto sta maturando come senso della propria vita. Le tematiche conseguenti sono una migliore accettazione di sé, anche per quanto riguarda la dimensione corporea: sono ragazze che hanno fatto un uso del corpo deleterio, come oggetto, come strumentalizzazione; le ragazze sono anche portatrici di grosse violenze, subite o fatte. Una delle tematiche, quindi, è quella della corporeità, e l’altra collegata del ricupero di una stima di sé, di una propria dignità come persona.

Altri aspetti di fondo – mi viene delucidato – sono la gestione dei sentimenti rivisti in senso positivo, riuscire a comprendere che sono importanti, ma essenziale è il saperli apprezzare, controllati per non lasciarsi prendere la mano; e di conseguenza la capacità di entrare in rapporto con se stessi, con gli altri e con il senso della vita. Inoltre sollecitare la tensione di darsi delle prospettive, prendere contatto con i propri desideri di fondo, in un ricupero per una prospettiva, una progettazione. In tale modo si definiscono temi che attraversano il passato, il presente e il futuro. E’ convinzione dello staff delle educatrici che è decisivo stare dentro la realtà, provare a fare esperienza e poi elaborare quello che è successo e tirarne fuori il “senso”. Una ricerca del senso che si specifica come ricerca del senso cristiano della vita, un’esigenza emersa dalle stesse ragazze, convinte che un ricupero viene di là, in contatto con una realtà più grande e più piena.

Più dettagliatamente viene colto l’atteggiamento nel laboratorio e nel conseguente spettacolo. Si scoprono delle persone dalle quali non ci si poteva aspettare che poco, e che invece riescono a sciogliersi, a muoversi, e ballano e cantano; ragazze che si mettono dentro la parte in modo creativo, che sorprendono per la capacità di sbloccarsi con possibilità inedite. E ci sono altre che evidentemente potrebbero dare molto, e che in effetti non quagliano: ci si ritrova in ogni caso di fronte al mistero della persona. Si validifica l’esperienza di rappresentare l’esito del laboratorio teatrale, un mettersi in un atteggiamento di disponibilità in relazione con un pubblico. La meraviglia sorprendente di riuscire a fare una parteche prima magari era rifiutata; superata la paura di cantare in pubblico, ruscire a controllare l’ansia, avvertendo una grossa tensione prima di arrivare sul palco, e poi rendersi conto che, una volta nella parte, si trattava di portare avanti un impegno, gestirsi con molta responsabilità le proprie emozioni.

8.Animatore e / o educatore?

Dovevo rivolgere alla responsabile – educatrice un dilemma che mi era rimasto problematico dopo il periodo passato presso la comunità Emmanuel: si creano disaccordi fra gli esperti e gli educatori? e in particolare fra l’animatore del laboratorio e le educatrici?

La risposta era già implicita in quanto si era discusso in precedenza, e appariva sicura e precisa: non c’è pericolo di un disaccordo fra esperto-animatore e la responsabile e le altre educatrici, in quanto lo stesso animatore non pretende di estrapolare oltre il suo compito professionale, di esperto teatrale, e quindi non va oltre l’impegno di usare il suo linguaggio e le sue tecniche. D’altronde ci sono confronti periodici, programmati sulle cose e sui problemi che sorgono, su quelle che sono le situazioni delle ragazze. Così si evitano problemi di questo tipo, di tensioni o di incomprensioni.

E l’educatrice si dimostra decisa e limpida: “L’attività espressivo-comunicativa è parallela all’educazione della persona; il linguaggio simbolico del teatro è una ricerca particolare che serve alla riorganizzazione della persona. L’animazione e il teatro non hanno senso come attività a sé stante, ma in quanto contribuiscono alla nuova coscienza di sé, alla nuova maturazione della persona”. L’affermazione finale supera una concezione di parallelismo fra attività di animazione e di teatro, e il piano pedagogico di ricupero. Piuttosto si impone una convergenza di interventi, per un obiettivo comune, nel quale confluisce positivamente la ricerca espressiva teatrale.

Esiste quindi una complementarietà di ruoli, per cui il progetto dell’animatore si inserisce nel progetto generale di ricupero. In una visione ottimale, ma tantissime volte utopica, si potrebbe auspicare un’identità dell’educatore che assorbe anche tecniche e linguaggi dell’animatore. Nella autonomia dei rispettivi ruoli, il compito dell’animatore dovrebbe assorbire e potenziare con la sua competenza il progetto educativo di fondo. Sempre nella coscienza precisa che scarta declassato ad una labile funzione, come accade per gli animatori delle discoteche o dei soggiorni estivi; al contrario nel ricupero di una professionalità sicura, come si definiva negli anni ottanta la valenza dell’animazione: una serie di interventi per cui si stimolano varie dinamiche individuali e collettive, in modo che un gruppo sia in grado di usare certe tecniche in direzione espressiva e comunicativa.

9.Note

Per la storia dell’evoluzione impressionante delle comunità Emmanuel v.MICHELE SIMONE, L’esperienza della comunità “Emmanuel” in “La Civiltà Cattolica”, n.3523, 5 aprile 1997, pp.30-42, una vicenda provvidenziale colta nell’ambito del fenomeno del volontariato, e che tende ad essere piuttosto descrittiva, sottolineando il punto di vista degli organizzatori, e mettendosi meno dalla parte dei giovani e degli altri ospiti delle comunità. Per una svista dell’osservatore estraneo alla vita delle comunità è inserito il “lavoro” nella presentazione dell'”arcipelago delle opere”, mentre il lavoro è elemento essenziale del metodo pedagogico. Quando questo viene affrontato nelle sue linee fondamentali, il discorso si settorializza (senza evidenziare il fatto) per i centri pedagogici che ospitano giovani ex tossicodipendenti. Per loro non viene specificato il rilievo che assume il lavoro manuale del mattino, la “ricerca” del secondo pomeriggio e la scelta di autori (Bach, Fromm, ecc.) con tematiche convergenti al metodo di ricupero.

RICHARD BACH, Il gabbiano Jonathan Livingstone, Milano, Rizzoli, 1996.

Ragazzi ed educatori di Arese, Teatro fattore di comunione, Torino, LDC, 1976.

La posizione dell’attrice è contenuta nel programma dello spettacolo che la vede come protagonista eccezionale Itsi Bitsi, rappresentato a Milano nel settembre 1997.

MARIO APOLLONIO, Storia, dottrina e prassi del coro, Brescia, Morcelliana, 1956, p.43.

GOTTARDO BLASICH, Drammatizzazione nella scuola, Torino, LDC, 1981, p.18.

Roberto Albanese

http://www.greenman.it

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